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 I gatti della signora Bond - James Herriot

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Giovanni
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MessaggioTitolo: I gatti della signora Bond - James Herriot   I gatti della signora Bond - James Herriot Icon_minitime22/12/2008, 15:02

I gatti della signora Bond
James Herriot


«Lavoro per i gatti». Quando le feci visita per la prima volta, la signora Bond si presentò così. Mi strinse vigorosamente la mano e protese il mento con aria provocatoria, come per sfidarmi a dire la mia. Era una donna grande e grossa dal viso forte, dagli zigomi alti e dall’aspetto imponente: non mi sarei mai sognato di irritarla, perciò annuii con aria seria, affinché pensasse che capivo benissimo e che ero d’accordo, e lasciai che mi facesse strada.
Compresi subito ciò che intendeva con quella frase. La grande cucina-soggiorno era completamente invasa dai gatti. C’erano gatti sui divani e sulle sedie, gatti che si riversavano a cascata sul pavimento, file di gatti seduti sui davanzali delle finestre e, proprio in mezzo, il minuscolo e pallido signor Bond dai baffi sottili, intento a leggere il giornale in maniche di camicia.
Quella scena sarebbe divenuta molto familiare. I gatti erano perlopiù maschi non castrati, visto che l’aria era pregna di un odore tanto acre e pungente da coprire persino le zaffate nauseabonde che si levavano dai grandi tegami sui fornelli, in cui borbottava un abominevole cibo per gatti. Il signor Bond se ne stava sempre là, in maniche di camicia, a leggere il suo giornale, piccola isola solitaria in quella marea di gatti.
Avevo già sentito parlare dei Bond, naturalmente. Erano di Londra, e per qualche oscuro motivo avevano scelto di ritirarsi nel nord dello Yorkshire.
La gente diceva che erano «ben messi»; avevano acquistato una vecchia casa nei dintorni di Darrowby, dove vivevano appartati. Con i loro gatti, s’intende. Avevo saputo che la signora Bond soleva prendersi cura dei randagi: dava loro da mangiare e, se lo volevano, anche un tetto. Questo mi aveva ben disposto nei suoi confronti, perché secondo la mia esperienza questa disgraziata specie è spesso trascurata e vittima di ogni genere di crudeltà. Ai gatti si sparava, si tirava addosso di tutto, contro di loro si aizzavano i cani e li si faceva morir di fame. Era bello vedere che qualcuno ne aveva preso le difese.
Il mio primo paziente era solo un micino di grossa taglia, una palla bianca e nera terrorizzata e rannicchiata in un angolo.
«É uno dei gatti esterni», tuonò la signora Bond.
«Come sarebbe a dire, esterni?»
«Be’, tutti i gatti che vede stanno sempre dentro. Gli altri sono più selvatici, si rifiutano di entrare in casa. Naturalmente io dò loro da mangiare, ma entrano in casa soltanto se sono malati».
«Capisco».
«Ho avuto un gran da fare per acchiappare questo qua. Ero preoccupata per gli occhi: mi sembra che gli sia cresciuta sopra un po’ di pelle; spero che riuscirà a fare qualcosa per lui. A proposito, si chiama Alfred».
«Alfred? Ah sì, be’, ottimo».
Avanzai cautamente verso il giovane animale e venni accolto da un mulinare di artigli e da una raffica di soffiate a fauci spalancate. Era bloccato nell’angolo, altrimenti si sarebbe dato alla fuga alla velocità della luce.
Visitarlo non sarebbe stato facile. Mi voltai verso la signora Bond. «Potrebbe darmi un lenzuolo o qualcosa del genere? Un vecchio lenzuolo da stiro sarebbe l’ideale. Devo avvolgerlo».
«Avvolgerlo?».
La signora Bond assunse un’espressione molto dubbiosa, ma scomparve in un’altra stanza e ne riemerse con un lenzuolo di cotone malandato che faceva precisamente al caso.
Tolsi dalla tavola una varietà incredibile di scodelle di cibo per gatti, di libri sui gatti, di medicine per gatti e vi stesi il lenzuolo, dopodiché ritornai al mio paziente. In circostanze simili non si può certo avere fretta: mi ci vollero quasi cinque minuti di moine e di «pucci pucci» per riuscire ad avvicinare la mano. Quando giunsi a una distanza tale da potergli accarezzare la guancia, lo afferrai all’improvviso per la collottola e finalmente lo portai sulla tavola, mentre protestava vivamente e si dimenava in ogni direzione. Lì, senza mollare la presa, lo stesi sul lenzuolo e iniziai la procedura di avvolgimento.
L’operazione viene spesso utilizzata per i felini più ribelli e, anche se so di autoincensarmi, sono alquanto bravo a effettuarla. Si tratta di fare un bell’involto stretto, lasciando fuori la parte del gatto da trattare, per esempio, una zampa ferita, la coda o, come nel nostro caso, la testa. Ritengo che la fede indiscussa che la signora Bond nutre per me sia nata proprio quando mi vide impacchettare fulmineamente il suo gatto. Alla fine tutto ciò che si scorgeva di lui era una piccola testa bianca e nera che sporgeva da uno stretto bozzolo di tela. Alfred ed io eravamo ora faccia a faccia, più o meno pupilla contro pupilla, e lui non poteva farci assolutamente nulla.
Come ho già affermato, sono piuttosto orgoglioso di questa mia capacità; tuttora i miei colleghi commentano: «Il vecchio Herriot avrà pure i suoi limiti ma, perdio, avvoltola i gatti come nessun altro».
Come si scoprì, sugli occhi di Alfred non era cresciuta alcuna pelle, il che del resto non accade mai.
«È una paralisi della terza palpebra, signora Bond. Gli animali hanno una membrana che si richiude sull’occhio per proteggerlo. In questo caso non si è riaperta, probabilmente perché Alfred è debilitato: magari ha avuto un po’ di influenza. Gli farò un’iniezione di vitamine e le lascerò una polverina da mettergli nel cibo se riuscirà a farlo stare in casa per qualche giorno. Penso che si rimetterà nel giro di una settimana o due».
L’iniezione non presentò problemi: Alfred era furibondo ma, avvolto nel suo lenzuolo, non poteva nuocere. Terminai così la mia prima visita dalla signora Bond.
Ne seguirono molte altre. Con la signora Bond stabilii immediatamente un ottimo rapporto, grazie anche al fatto che ero sempre pronto a dedicare un po’ di tempo ai suoi piccoli: per raggiungere i gatti esterni, strisciavo sul ventre sotto le pile di ceppi nei capanni, li convincevo con le moine a scendere dagli alberi, tendevo loro di
continuo imboscate fra i cespugli. Ma dal mio punto di vista le gratificazioni non mancavano.
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MessaggioTitolo: Re: I gatti della signora Bond - James Herriot   I gatti della signora Bond - James Herriot Icon_minitime22/12/2008, 15:04

Per esempio, la varietà dei nomi che la signora Bond aveva inventato per i suoi gatti. Fedele alla sua educazione londinese, aveva dato a molti i nomi del mitico Arsenal di allora: c’erano Eddie Hapgood, Cliff Bastin, Ted Drake e Wilf Copping, ma in un caso commise un grave errore, perché Alex James partoriva tre volte l’anno, con puntualità svizzera.
E poi, c’era il modo di richiamarli in casa. La prima volta che la vidi in azione era una tranquilla sera d’estate. I due gatti che voleva farmi visitare erano fuori in giardino, nascosti chissà dove. La seguii fino alla porta sul retro dove si arrestò, giunse le mani al petto, chiuse gli occhi e intonò, con voce melliflua di contralto:
«Bates, Bates, Bates, Ba-hates».
Cantilenò il nome, adottando un’unica, rispettosa nota, cambiando deliziosamente ritmo solo per pronunciare Ba-hates. Dopodiché, come una prima donna dell’opera, allargò di nuovo l’ampia gabbia toracica e ripetè l’operazione con grande impeto.
«Bates, Bates, Bates, Ba-hates».
Ad ogni buon conto il metodo ebbe successo, perché il gatto Bates se ne uscì trotterellando da dietro una fitta siepe di alloro. Mancava ancora un paziente, e io continuai a osservare la signora Bond con grande interesse.
Lei riprese la sua postura, inspirò, chiuse gli occhi, atteggiò il volto, accennando un soave sorriso e riprese.
«Sette-per-tre, Sette-per-tre, Sette-per-tre-hee». La melodia era la stessa usata per Bates, con la medesima deliziosa variazione di ritmo alla fine. Ma questa volta l’effetto non fu immediato e la signora Bond dovette ripetere la performance più volte; le note sospese nell’aria quieta della sera erano incredibilmente simili al canto di un muezzin che chiama i fedeli alla preghiera.
Alla fine, però, ebbe successo: un grosso gatto color tartaruga strisciò con aria contrita lungo la parete fin dentro casa.
«Senta, signora Bond», chiesi, cercando di essere disinvolto, «non ho capito bene il nome dell’ultimo gatto».
«Quale, Sette-per-tre?».
Sorrise, come se stesse ricordando. «Sì, è un tesoro. Ha fatto tre gattini sette volte di fila, sa, e ho pensato che fosse un nome piuttosto azzeccato, lei che ne dice?»
«Oh sì, certo. Splendido nome, splendido davvero».
Un’altra cosa che mi piaceva della signora Bond era che si preoccupava della mia sicurezza, un fatto notevole anche perché raro fra i proprietari di animali. Ricordo che un allenatore, dopo che uno dei suoi cavalli da corsa mi aveva dato un calcio sbattendomi fuori dal box aveva preso a esaminare preoccupato il quadrupede, per vedere se si fosse fatto male alla zampa. Ricordo anche la vecchiettina, che appariva ancor più minuscola accanto a un alsaziano dal pelo irto e dai denti scoperti, che diceva: «Sia carino con lui la prego, spero che non gli farà male, vede è così nervoso». Oppure il contadino che, dopo un parto di un vitello tanto estenuante che mi costò due anni di vita, grugnì tutto imbronciato: «Mi sa che ha stancato troppo quella mucca, giovanotto».
La signora Bond era diversa.
Mi veniva incontro sulla porta con un enorme paio di guanti perché mi proteggessi le mani dai graffi. Vedere qualcuno che si interessava di me mi dava un sollievo inesprimibile. Il percorso lungo il sentiero del giardino fra quelle innumerevoli e furtive creature dallo sguardo selvaggio che erano i gatti esterni, la cerimonia della consegna dei guanti sulla porta, quindi l’ingresso nell’atmosfera satura della cucina, dove il piccolo signor Bond e il suo giornale si intravedevano a malapena nel turbinio dei corpi pelosi dei gatti interni, erano entrati a far parte della mia vita.
Non riuscii mai a capire quale fosse l’atteggiamento del signor Bond nei confronti dei gatti: pensandoci bene, non apriva mai bocca, ma avevo l’impressione che per lui fosse questione di prendere o lasciare.
I guanti erano molto utili, una manna dal cielo, in certi casi. Come in quello di Boris. Boris era un enorme gatto nero-blu della tribù dei gatti esterni, la mia bestia nera in più sensi. Sono da sempre segretamente convinto che Boris fosse scappato da uno zoo: non ho mai visto gatti domestici con muscoli tanto agili, o con una ferocia tanto mirata. Sono certo che avesse qualcosa del puma.
L’arrivo di Boris segnò un giorno infausto per la colonia dei gatti. Non sono mai riuscito a odiare un animale: la maggior parte di quelli che cercano di farci del male agiscono in preda alla paura. Boris, però, era diverso: era un malvagio prepotente e dopo il suo arrivo le mie visite si fecero più frequenti a causa della sua abitudine di aggredire regolarmente i suoi colleghi. Ero sempre impegnato a ricucire orecchie a brandelli e a medicare zampe mordicchiate.
Boris diede molto presto prova della sua forza. La signora Bond voleva che gli somministrassi una dose di vermifugo, ed ero già pronto con la pastiglia fra le pinze. Non so bene come riuscii ad acchiapparlo, ma lo sbattei sul tavolo e in un lampo lo immobilizzai, avvolgendolo in un tessuto robusto. Solo per pochi secondi pensai di averlo in pugno, mentre lui mi fissava con grandi occhi brillanti colmi d’odio. Ma appena gli introdussi le pinze in bocca, chiuse i denti con cattiveria e sentii i suoi artigli di una potenza impressionante strappare dall’interno il tessuto. Tutto si verificò in pochi secondi: una lunga zampa sbucò fuori, fulminea, e si fece strada fino al mio polso: mollai allora la collottola, ma in un batter d’occhio Boris aveva già affondato i denti nel polpastrello del mio pollice, forando il guanto. Poi, scappò via.
Io rimasi là come un idiota, reggendo la pastiglia spezzettata di vermifugo, a guardare il mucchietto di stracci che un tempo era stato il mio telo. Da allora Boris detestò anche solo vedermi, e io lo ricambiai.
Ma questa non fu che una piccola nuvola in un cielo sereno: continuai a divertirmi durante le visite dalla signora Bond e la vita proseguì tranquilla il suo corso. Eccezion fatta, forse, per le prese in giro dei colleghi, che non riuscivano a comprendere perché fossi disposto a perdere tanto tempo per un sacco di gatti: opinione del resto comune, visto che pure Siegfried non capiva la gente che teneva animali in casa, di nessun tipo. Davvero, non riusciva a comprendere tale mentalità, ed esponeva la sua teoria a tutti coloro che erano disposti a starlo a sentire. Naturalmente, aveva cinque cani e due gatti. I cani, tutti e cinque, lo seguivano in macchina dovunque andasse; ogni giorno dava loro da mangiare con le sue stesse mani, anzi, non permetteva a nessun altro di farlo. La sera tutte e sette le bestiole si ammucchiavano ai suoi piedi, mentre lui sedeva davanti al fuoco. Ancor oggi è più anti-animalista che mai anche se,
mentre guida, un’altra generazione di code scodinzolanti gli oscura la vista, e possiede vari gatti, alcuni acquari tropicali e un paio di serpenti.
Tristan mi vide in azione dalla signora Bond in una sola occasione. Quando entrò nella stanza, stavo prendendo un paio di lunghe pinze dall’armadietto degli strumenti.
«Qualcosa di interessante, Jim?», chiese.
«Non proprio. Vado solo a dare un’occhiata a uno dei gatti dei Bond. Ha un osso conficcato fra i denti».
Tristan mi guardò rimuginando per un attimo.
«Mi sa che verrò con te. È un po’ che non vedo animali piccoli».
Attraversando il giardino per arrivare alla fondazione prò gatti provai un certo imbarazzo. Una delle cose che avevano contribuito a creare il mio buon rapporto con la signora Bond era l’attenzione che dedicavo ai compiti affidatimi. Anche con il gatto più tremendo e selvaggio dimostravo solo gentilezza, pazienza e sollecitudine. Non che fingessi: mi veniva piuttosto naturale. Ma mi chiedevo che cosa avrebbe detto Tristan delle mie buone maniere.
La signora Bond aveva intuito la situazione in un lampo e aveva preparato nell’ingresso due paia di guanti. Nel ricevere il suo, Tristan parve leggermente sorpreso, ma ringraziò la signora con il savoir faire che lo caratterizza. Parve ancor più sorpreso quando, entrando in cucina, odorò l’aria pungente e prese visione della massa di creature pelose che non lasciavano praticamente neanche un centimetro di spazio libero.
«Signor Herriot, mi spiace ma è Boris che ha l’osso fra i denti», annunciò la signora Bond.
«Boris!» Il mio stomaco sussultò. «Come faremo ad acchiapparlo?»
«Ah, mi sono fatta furba», rispose. «Sono riuscita ad attirarlo con la sua pappa preferita in una portantina».
Tristan posò la mano su una gabbia di vimini posta sul tavolo. «Qua dentro, eh?», chiese con fare disinvolto. Tolse la chiusura e aprì lo sportello. Per qualcosa come una frazione di secondo, Tristan e la creatura che se ne stava rannicchiata lì dentro si scambiarono uno sguardo intenso, dopodiché un corpo nero lucido schizzò silenziosamente fuori dalla cesta, sfrecciò accanto all’orecchio sinistro del giovane e finì quindi in cima a un’alta credenza.
«Cristo santo!», esclamò Tristan. «Che diavolo era?»
«Quello», spiegai, «era Boris, e adesso lo dobbiamo riacciuffare». Mi arrampicai su una sedia, allungai lentamente una mano verso la cima della credenza e cominciai a sussurrare «pucci-puccipucci» con il tono più adulatorio possibile.
Dopo quasi un minuto Tristan ritenne di avere un’idea migliore: all’improvviso spiccò un salto e afferrò Boris per la coda, ma per poco; il grosso gatto si liberò in un attimo e cominciò a turbinare in giro per la stanza, sfiorando la sommità di credenze e cassettoni e le tende a tutta velocità, come un vagone dell’ottovolante.
Tristan si posizionò in un punto strategico e, quando Boris passò di lì come una saetta, tentò di colpirlo col guanto.
«Mancato», urlò, umiliato. «Ma ecco che torna... prendi questo, vecchio bastardo! Maledizione, non riesco a inchiodarlo!»., I docili gatti interni, allarmati dalla caduta di piatti, padelle e scatolette e dalle grida e dal gesticolare di Tristan, cominciarono a
loro volta a correre all’impazzata, travolgendo tutto ciò che era sfuggito a Boris. Il rumore e la confusione turbarono persino il signor Bond, perché per un attimo soltanto levò il capo e si guardò intorno, lievemente sorpreso alla vista di tutti quei corpi che entravano in collisione. Poi, tuttavia, tornò al suo giornale.
Tristan, tutto rosso ed eccitato per la caccia, aveva cominciato a divertirsi davvero. Mi feci piccolo piccolo, quando gridò allegramente: «Mandalo avanti Jim, al prossimo giro acchiappiamo quel bastardo».
Non riuscimmo mai a catturare Boris. La visita veterinaria non ebbe successo, e lasciammo pertanto che il pezzo d’osso se ne uscisse da solo. Ma mentre tornavamo alla macchina, Tristan sorrise soddisfatto.
«É stato fortissimo, Jim. Non avevo capito che te la spassavi tanto con i tuoi micetti».
La signora Bond invece, quando la rividi, fu piuttosto laconica in ordine all’accaduto.
«Signor Herriot», mi disse, «spero che non porterà mai più con sé quel giovanotto».
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